Questo vino è Xantos! Così pare abbia esclamato il patriarca Bessarione durante il Concilio Ecumenico di Firenze nel 1349, sottolineando la forte somiglianza tra il noto vino toscano ottenuto da appassimento di uve e quello dolce già molto diffuso in Grecia, coniando così il nome arrivato fino ai giorni nostri: Vin Santo.
Questa non è però l’unica tesi che ne riguarda la genesi, l’aggettivo tradisce origini che si collegano direttamente ai sacramenti cristiani ed al suo utilizzo durante l’Eucaristia, tanto da meritarsi l’appellativo “Vin de’ preti”; oppure potrebbe derivare dalla Festa dei Santi di novembre, mese in cui si inizia a produrlo o ancora dalla Settimana Santa di marzo, periodo in cui ha termine l’appassimento delle uve o in cui si inizia a imbottigliare.
Qualunque sia l’origine del nome ciò che è certo è che questo particolarissimo vino ha una tradizione molto antica. Fin dal Medioevo è nota la predilezione delle classi abbienti per i vini con residuo zuccherino, più pregiati per l’oneroso metodo produttivo e quindi ben distinguibili da quelli secchi, “garbi”, consumati dal volgo.
La prima menzione ufficiale del Vin Santo in un documento scritto è del 1773 su Oenologia Toscana di Cosimo Villafranchi ed a partire dai primi anni dell’Ottocento si assiste alla cosiddetta ruralizzazione di questo prodotto, ovvero l’usanza dei contadini di vinificare accanto al vino della quotidianità anche una piccola chicca, uno ottenuto da uve lasciate appassire e da dedicare alle Feste, alle grandi occasioni o semplicemente per omaggiare un amico venuto a far visita. Quindi non un vino destinato al commercio, troppo esigue le quantità, troppo dispendioso il lavoro per pensare anche solo di assegnare un prezzo. L’esclusività e rarità del prodotto è confermata nell’opera del 1920 di Arturo Marescalchi, La Degustazione e l’Apprezzamento dei Vini, in cui i “vini forzati e santi” erano catalogati come di lusso.
Da questa aurea di preziosità allo svilimento del Vin Santo come prodotto da scaffale Discount in cui inzuppare i cantuccini, il passo è stato molto breve. Cos’è veramente il Vin Santo? In particolare quello del Chianti Classico, sua zona d’elezione?
Tralasciando le infime versioni industriali, questo è un vino che non ha eguali nel panorama enoico italiano, definito quasi magico e alchemico. Secondo la tradizione, che ancora oggi resiste, durante la vendemmia il viticoltore sceglie i migliori tralci di vite con pochi grappoli attaccati, da appendere al soffitto per l’appassimento, in gergo chiamati appunto i “penzoli”. Interessante già soffermarsi su questo aspetto legato alla disposizione delle uve, che via via con il tempo sono state poste ad appassire sui graticci, stuoie, all’interno dei fruttai. Fu il maestro Tachis, per la Tenuta Riseccoli a consigliare e quindi a rinverdire la tradizione di appendere l’uva, meno esposta così ai rischi del marciume indesiderato. Quali uve? Bianche principalmente: San Colombano, trebbiano toscano, malvasia bianca lunga del Chianti. Molto raramente si utilizza la bacca rossa. L’appassimento dura in genere fino alle Feste Natalizie, periodo in cui i grappoli vengono “spippolati” a mano e torchiati. Il mosto ottenuto venie posto in piccoli caratelli, botticelle, di formati diversi ma mai sopra i 110 litri, di produzione artigianale e anche di legni diversi, rovere, ciliegio, pero, melo, acacia, meno utilizzato il castagno perché cede tannini. I caratelli vengono riempiti circa al 70%, quindi tenuti scolmi, insieme alla madre, deposito feccioso finale dell’ultimo travaso, poi sigillati con ceralacca o cemento. I caratelli vengono collocati nei sottotetti per beneficiare delle forti escursioni termiche estate/inverno, con ripetuti arresti fermentativi, evaporazioni e lente ossidazioni. Così prende forma la magia del Vin Santo, croce e delizia degli enologi, il vino più incontrollabile di tutti, non gestibile nella fase fermentativa. L’apertura dei caratelli spesso rivela sorprese, in positivo o in negativo. In questo vino l’ossidazione è ricercata ma ben calibrata, controllata, con quel sottile sentore di acetaldeide. La permanenza nei caratelli può essere prolungata per lunghissimi anni, anche oltre un decennio, circostanza che ne giustifica insieme all’impegnativo metodo di vinificazione, il prezzo.
Entrando nel perimetro tecnico, quello del Disciplinare, “Vin Santo del Chianti Classico DOC”, approvato nel 1995, si apprende che è ammesso produrlo con trebbiano toscano e malvasia, da soli o congiuntamente, minimo 60%” e nella versione occhio di pernice, in verità assai rara, con sangiovese, minimo 80%. Le percentuali residuali sono composte da un vasto numero di varietà idonee alla coltivazione nell’ambito della Regione Toscana e riportato in un apposito allegato. La zona di produzione delle uve è la medesima della denominazione Chianti Classico DOCG, pressoché identica a quella già individuata da Cosimo III de’ Medici con il famoso Bando del 1716. Per quanto riguarda i parametri di vinificazione è stato istituito il periodo minimo di invecchiamento in 24 mesi, in caratelli di legno di capacità non superiore a 3 ettolitri e con un titolo alcolometrico volumico totale minimo di 16% vol., di cui almeno il 10,5% svolto. Recentemente il Disciplinare ha allargato le maglie della tipicità del Vin Santo del Chianti Classico, prevedendo nel colore come tonalità più scura anche il bruno e al gusto anche il sapore dolce, oltre il secco e l’amabile. Queste modifiche non tanto per snaturare un vino che per tradizione è sempre stato color dell’ambra e lievemente zuccherino nell’espressione saporifera ma perché certi produttori interpretano il Vin Santo, vuoi per particolare terroir, vuoi per filosofia aziendale, con un’anima più aperta e mellita, che si avvicina più ai tradizionali passiti da uve bianche, pur mantenendo lo spirito etereo e terziario tipico di questo nettare toscano.
Cosa aspettarsi sotto la lente d’ingradimento organolettica da un grande Vin Santo del Chianti Classico? Alcune note sono in comune, altre dipendono dallo stile produttivo. Come colore il più tipico è l’ambra lucente, il topazio, il mogano e il dorato antico. Olfatto e gusto sono guidati dal grado di dolcezza, laddove la secchezza è padrone le percezioni ricorrenti sono di amaretto, nocciola e mandorla tostata, profumi di sottobosco, zenzero e resina di pino. Quando invece l’equilibrio gustativo si sposta più sul residuo zuccherino ecco che diventano esuberanti le nuance di albicocca disidratata, dattero, caramella d’orzo e miele di castagno. In entrambi i casi tutto condito da tracce ben controllate di ceralacca e smalto. Il gusto è introdotto da una dolcezza affatto adesiva, ravvivata continuamente dalla sapidità. Il finale è nitido e si dilata in una lunga e appagante persistenza aromatica intensa.
Gli stili produttivi del Vin Santo cambiano decisamente gli abbinamenti gastronomici. Nei tempi moderni è sempre stato considerato da dessert, ruolo che possiamo anche condividere ma con alcune accortezze. Essendo un vino “dolce non dolce”, in cui l’acidità è ben presente, sostenuta anche da quella volatile, va da sé che non accolga con favore le preparazioni dolciarie troppo ricche, come ad esempio crema, panna, paste lievitate, Pan di Spagna ma gradisca tutta quella pasticceria secca dove lo zucchero sia solo comprimario, ecco allora i famosi Cantucci di Prato con le mandorle. Breve ma doverosa parentesi, nessun vino al quale si riconosca un minimo di dignità può essere ”declassato” a liquido per l’inzuppo di biscotti. Questa pratica consolidata da osteria è dovuta a pessime versioni liquorose del Vin Santo che nulla hanno da condividere con quello nobile di cui è stato delineato il profilo in questo articolo. Altre preparazioni ideali per l’accompagnamento sono i Brutti Ma Buoni, il Panforte, i Cavallucci di Siena, il Panpepato, la frolla ai fichi, il torrone e l’Addormentasuocere. Tutti accoppiamenti che esaltano le note tostate, speziate ed eteree del Vin Santo, oltre a trovare un’ideale armonia tra l’alcol e la succulenza.
Quando invece certe secchezze e note eteree/tostate sovrastano decisamente il residuo zuccherino, il Vin Santo del Chianti Classico abbraccia certe atmosfere oristanesi se non addirittura transalpine verso le suggestioni di noce e fungo del Vin Jaune.
Ecco allora che a tavola il Vin Santo si trasforma, si toglie gli abiti del compagno da dessert per assumere connotati inusuali e inaspettati. Da provare assolutamente in tal caso con i formaggi erborinati: Gorgonzola stagionato, Stilton e Roquefort. Lascerà senza’altro a bocca aperta quando abbinato anche alla tendenza amarognola dei fegatini di pollo, sia Rocher che saltati in padella.
Unico e aristocratico può risultare con la Crème brûlée di foie gras.
Infine il Vin Santo del Chianti Classico può rappresentare un degno fine pasto, anche senza abbinamenti, oppure con praline di cioccolato purché non troppo fondenti o con un Sigaro Antico Toscano. Semplicemente anche per una serata conviviale davanti al focolare, un vino che scalda il cuore e stimola i pensieri.
Valentino Tesi
(giugno 2024)